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Ascesa e declino della società: capitolo I

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Economia vs. Politica

 

Può essere che le bestie diffidenti della foresta arrivino ad accettare la trappola del cacciatore come un’alternativa alla regolare ricerca di cibo. In ogni caso l’animale umano, presumibilmente razionale, è diventato così assuefatto agli interventi politici che non può pensare di guadagnarsi da vivere senza di essi; in tutti i suoi calcoli economici la sua prima considerazione è: cosa dice la legge a riguardo? O, più probabilmente: come posso fare uso della legge per migliorare la mia sorte nella vita?

Questo può essere descritto come un riflesso condizionato. Non accade quasi mai di pensare di poter fare meglio qualora operassimo in maniera autonoma, entro i limiti posti su di noi dalla natura, e senza vincoli politici, controlli o sovvenzioni. Non pensiamo mai che queste misure interventiste sono messe sul nostro cammino come una trappola, per scopi diametralmente opposti alla nostra ricerca di una vita migliore. Le accettiamo automaticamente come necessarie per quello scopo.

E così accade che coloro che scrivono di economia inizino con il presupposto che sia una branca della scienza politica. I nostri libri di testo, quasi senza eccezione, affrontano l’argomento da un punto di vista giuridico: come gli uomini si guadagnano da vivere secondo le leggi vigenti? Ne consegue, ed alcuni libri lo ammettono, che se la legge cambia, l’economia deve seguire l’esempio. E’ per questo motivo che i nostri curricula universitari sono carichi di una serie di corsi in economia, ognuno dei quali rende omaggio alle leggi che disciplinano le diverse attività umane; così abbiamo l’economia del merchandising, l’economia delle operazioni immobiliari, l’economia bancaria, l’economia agraria e così via.

Ascesa e Declino della SocietàQuasi mai ci si rende conto che esiste una scienza economica, con relativi principi di base, in tutte le nostre occupazioni e soprattutto che non non abbia nulla a che fare con la legislazione. Da questo punto di vista sarebbe opportuno, se è la legge a sancire la pratica, che i curricula inseriscano un corso chiamato economia della schiavitù.

L’economia non è politica. La prima è una scienza, riguarda leggi immutabili e costanti della natura che determinano la produzione e la distribuzione della ricchezza; la seconda è l’arte di governare. Una è amorale, l’altra è morale. Le leggi economiche sono indipendenti e autovalidanti, così come tutte le leggi naturali, mentre la politica ha a che fare con convenzioni create e manipolate dall’uomo. Come scienza, l’economia cerca di comprendere i principi invariabili; la politica è effimera, il suo oggetto riguarda i rapporti giornalieri degli uomini. L’economia, come la chimica, non ha nulla a che fare con la politica.

L’intrusione della politica nel campo dell’economia è semplicemente una prova dell’ignoranza o dell’arroganza umana, ed è un tentativo tanto vano quanto il voler comandare l’ascesa e la calata delle maree. Sin dall’inizio delle istituzioni politiche, ci sono stati tentativi di fissare i salari, di controllare i prezzi e di creare capitale, tutti risultati fallimentari. Tali tentativi sono costretti al fallimento perché la sola competenza della politica è quella di obbligare gli uomini a fare quello che non vogliono fare o ad astenersi dal fare quello che sono inclini a fare, e le leggi dell’economia non rientrano in tale ambito. Sono impermeabili alla coercizione. Salari, prezzi e accumulo di capitale hanno leggi proprie; leggi che sono al di là della sfera di competenza del poliziotto.

Il presupposto che l’economia sia asservita alla politica nasce da un errore logico. Dal momento che lo stato (la macchina della politica) può controllare e controlla il comportamento umano, e poiché gli uomini sono sempre impegnati nel guadagnarsi da vivere, concetto permeato dalle leggi dell’economia, ne sembra conseguire che per controllare gli uomini lo stato debba piegare queste leggi alla sua volontà. Il ragionamento è errato perché non tiene conto delle conseguenze. Si tratta di un principio invariabile che gli uomini lavorino per soddisfare i propri desideri, o che la forza motrice della produzione è la prospettiva dei consumi; infatti, una cosa non è prodotta fino a che non raggiunge il consumatore.

Quando lo stato interviene nell’economia, il che avviene sempre a titolo di confisca, ostacola i consumi e quindi la produzione: il produttore produce in proporzione a quanto consuma. Non è l’ostinazione che porta a questo risultato; è il funzionamento di una legge naturale immutabile. Lo schiavo non “si piega” consapevolmente al lavoro: è un produttore povero perché è un consumatore povero.

L’evidenza è che l’economia influenza il carattere della politica, piuttosto che il contrario. Uno stato comunista (che si impegna ad ignorare le leggi dell’economia, come se non esistessero) si caratterizza per la sollecituine nell’uso della forza; è uno stato di paura. Le aristocratiche città-stato greche presero forma dall’istituzione della schiavitù. Nel XIX secolo, quando lo stato, per fini propri, strinse accordi con la classe industriale, si venne a creare lo stato mercantilista.

Il Welfare State è in realtà un’oligarchia di burocrati che, in cambio delle prerogative e del prestigio della carica, si impegna a confiscare e redistribuire la produzione secondo le formule della propria immaginazione, in spregio del principio per cui la produzione necessariamente calerà nella quantità in cui viene confiscata. E’ interessante notare che tutti i tipi di assistenzialismo iniziano con un programma di distribuzione — il controllo del mercato — e finiscono con tentativi di gestione della produzione. Questo perché, contrariamente alle aspettative dell’oligarchia, le leggi dell’economia non sono sospese dalla sua interferenza politica né i prezzi rispondono ai suoi dictat. Non solo: nel tentativo di far funzionare le proprie nozioni preconcette essa le applica anche al settore della produzione, anche lì fallendo.

L’impermeabilità della legge economica rispetto alla legge politica viene mostrata in questo fatto storico: nel lungo periodo ogni stato implode, spesso scomparendo del tutto per diventare una curiosità archeologica. Ogni crollo di cui abbiamo prove sufficienti è stato preceduto dallo stesso corso di eventi: lo stato, nella sua insaziabile brama di potere, intensifica sempre di più i propri abusi nei confronti dell’economia nazionale causando un conseguente declino di interesse per la produzione, fino a quando non viene intaccato il livello di sussistenza e quanto prodotto non è più sufficiente per mantenere lo stato nella condizione a cui era abituato. Non essendo più in grado di sopportare lo sforzo economico di qualche circostanza immediata, come una guerra, finisce col soccombere.

Prima di questo evento l’economia della società, su cui poggia la potenza dello stato, si era deteriorata portando anche un rilassamento nei valori morali e culturali; agli uomini “non importava.” In altre parole: la società è crollata e ha trascinato con sé lo stato. Non c’è modo per lo stato di evitare questa conseguenza — tranne, naturalmente, abbandonare i suoi interventi nella vita economica delle persone che controlla, cosa che la sua intrinseca brama di potere non gli consente. Non c’è modo per la politica di proteggere sé stessa dalla politica.

La storia dello stato americano è istruttiva. La sua nascita era propizia essendo concepita da un gruppo di uomini insolitamente saggi ed impegnati nel non ripetere gli errori dei predecessori. Nessuno dei difetti della tradizione politica sembrò segnare il nuovo stato: non fu appesantito dall’eredità di un sistema feudale o di caste, non doveva vivere secondo la dottrina del “diritto divino” né fu segnato dalle cicatrici della conquista che avevano tormentato l’infanzia di altri stati. Fu nutrito con cibo sano: la dottrina di Rousseau secondo cui il governo deriva i propri poteri dal consenso dei governati, la libertà di parola e di pensiero di Voltaire, la giustificazione della rivoluzione di Locke e, soprattutto, la dottrina dei diritti impliciti. Non c’era il regime di uno status ad arrestarne la crescita. In realtà, tutto era de novo.

La scienza politica adottò ogni misura precauzionale nota per evitare che il nuovo stato americano acquisisse l’attitudine auto-distruttiva di ogni stato del passato: quella di interferire con il perseguimento della felicità dell’uomo. Le persone dovevano essere lasciate in pace, dovevano risolvere i loro destini individuali con le capacità di cui la natura li aveva dotati. A questo scopo, lo stato era circondato da una serie di divieti e limitazioni ingegnosi: non solo le sue funzioni erano chiaramente definite, ma ogni inclinazione ad andare oltre i propri limiti era trattenuta da una triplice divisione dell’autorità, mentre la maggior parte dei poteri interventisti da esso impiegati erano riservati alle autorità più vicine ai governati e quindi più suscettibili alla loro volontà. Attraverso il principio di divisione imperium in imperio lo stato sarebbe stato per sempre deprivato di quella posizione di monopolio necessaria per darsi alla violenza. Meglio ancora, era condannato ad andare d’accordo con un magro obiettivo, dato che i suoi poteri di tassazione erano ben circoscritti. Non sembrava possibile, nel 1789, che lo stato americano potesse fare molto nell’interferire con l’economia della nazione: era costituzionalmente debole e con un bilancio esiguo.

L’inchiostro non si era ancora asciugato sulla Costituzione che i suoi autori, ora in posizione di autorità, iniziarono a riscriverla in via interpretativa al fine di allentarne i limiti; il lievito del potere annidato nello stato era in fermentazione. Il processo di interpretazione giudiziaria, continuato fino ai giorni nostri, venne successivamente integrato dall’emendamento; l’effetto di quasi tutti gli emendamenti, sin dai primi dieci (che furono scritti nella Costituzione dietro pressione del pubblico), era quello di indebolire la posizione dei vari governi statali e di estendere il potere del governo centrale. Poiché il potere statale può crescere solo a spese del potere sociale, la centralizzazione che è andata avanti sin dal 1789 ha spinto la società americana in quella condizione di sottomissione che la Costituzione era intesa ad evitare.

Nel 1913 arrivò l’emendamento che liberò completamente lo stato americano dalle proprie catene, poiché con le entrate provenienti dall’imposta sui redditi poteva ormai fare incursioni illimitate nell’economia del popolo. Il XVI Emendamento non solo violava il diritto del singolo al prodotto del proprio lavoro, ingrediente essenziale della libertà, ma dava anche allo stato americano i mezzi per diventare il più grande consumatore, datore di lavoro, banchiere, produttore e proprietario di capitale della nazione. Ora non c’è alcun ambito della vita economica in cui lo stato non sia partecipe, non c’è impresa o professione libera dal suo intervento.

La metamorfosi dello stato americano da istituzione apparentemente innocua ad una macchina potente ed interventista, quale fu Roma al proprio culmine, ha avuto luogo lungo un secolo e mezzo. Gli storici stimano che la gestazione del più grande stato dell’antichità abbia coperto quattro secoli, ma oggi si viaggia più veloci. Quando la grandezza di Roma era al punto più alto, la preoccupazione principale dello stato era la confisca della ricchezza prodotta dai suoi cittadini e sudditi; la confisca venne formalizzata legalmente, come lo è oggi, e sebbene non fosse rivestita con moralismi smielati o ideologicamente strutturati, erano presenti alcune caratteristiche dell’assistenzialismo moderno. Roma aveva programmi di stimolo del lavoro, mance ai disoccupati e sussidi all’industria: tutte cose necessarie per rendere appetibile e possibile la confisca.

Probabilmente per i romani dell’epoca questo ordine di cose poteva sembrare normale e corretto, come accade oggi. I vivi sono condannati a vivere nel presente, nelle condizioni prevalenti, e la loro preoccupazione per queste condizioni rende ogni valutazione del trend storico difficile ed esclusiva. I romani non sapevano o non si preoccupavano del “declino” in cui vivevano né di certo si preoccupavano della “caduta” che il loro mondo stava sperimentando. E’ solo dal punto di vista della storia, quando è possibile vagliare le prove e trovare una causa-effetto, che può essere fatta una stima significativa di quanto stava accadendo.

Ora sappiamo che, nonostante l’arroganza dello stato, erano al lavoro forze economiche che influenzano le tendenze sociali. La produzione di ricchezza, cosa di cui vivono gli uomini, scese in proporzione alle estorsioni ed alle interferenze dello stato; l’interesse generale per la mera esistenza sommerse ogni interesse latente nei valori culturali e morali, ed il carattere della società si trasformò gradualmente in quello di una mandria. Dio non paga il sabato: entro un paio di secoli il deterioramento della società romana venne seguito dalla disintegrazione dello stato, al punto da non avere né i mezzi né la volontà per resistere ai venti della storia. Va notato come fu la società, che prospera solo in una condizione di libertà, a crollare per prima: non vi fu in essa alcuna disposizione a resistere alle orde di invasori.

L’analogia suggerisce una profezia ed una geremiade, ma ciò non rientra nello scopo di questo saggio la cui tesi è che la società, il governo e lo stato siano fenomeni essenzialmente economici e che dunque una comprensione di queste istituzioni la si ritroverà nell’economia, non nella politica. Questo non vuol dire che l’economia sia in grado di spiegare tutte le sfaccettature di dette istituzioni, così come lo studio dell’anatomia umana non rivelerà tutti i segreti della persona. Tuttavia, come non ci può essere un essere umano senza scheletro, così qualsiasi indagine sul meccanismo delle integrazioni sociali non può ignorare la legge economica.

Per motivi che diverranno evidenti nel prosieguo di questo saggio, sarà necessario allontanarci dal suo tema centrale per la durata di un capitolo; questo sarà dedicato all’indagine di due teorie circa l’origine dello stato: una quella classica, l’altra invece di più recente formulazione.

Frank Chodorov

Traduzione di Francesco Simoncelli

 

(Vai all’Introduzione)

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